Londra

Dopo che al British Museum fu tornata la normalità, la domanda su chi avesse reagito per primo agli spari che echeggiarono nelle sale rivestite di marmo, rimase sospesa: le donne che iniziarono a strillare appena gli spari esplosero fuori dall’edificio o le innumerevoli guardie del corpo, poliziotti in borghese e altri professionisti della sicurezza ingaggiati per l’occasione? Quando il missile dei terroristi distrusse la Daimler limousine di Khalid, le guardie condussero i loro spaventatissimi protetti in una delle aree riservate al ‘personale autorizzato’ sul retro dell’edificio che offriva l’uscita più facilmente difendibile.

La maggior parte di quei ricconi, arabi e inglesi, si era già trovata sotto l’attacco dei terroristi, fossero essi estremisti islamici o separatisti dell’IRA, e molti si trovarono a reagire con molta più calma di quanta si sarebbero aspettati. Con una compostezza che era il frutto dell’accettazione lasciarono che le guardie li portassero in salvo. Parlavano poco, mentre si spostavano in gruppo lungo i corridoi rivestiti di marmo, passando davanti a bacheche appesantite da preziosi manufatti e antichi tesori dell’archeologia. Sorprendentemente, le coppie di arabi si mostravano più affettuose di quelle inglesi, i mariti tenevano per mano le mogli costrette a muoversi frettolosamente dall’ansia delle guardie bisbigliando loro parole rassicuranti.

Per tutta la durata di quel supplizio, nemmeno una pallottola venne sparata contro il museo.

Nei pochi romanzi gialli che Khalid era riuscito a finire, aveva letto che le pallottole fischiavano e che al loro passaggio era possibile sentire l’aria muoversi. Ma nessun autore aveva mai parlato dell’intenso calore che si era generato quando i colpi gli erano passati così vicino da bruciargli la pelle della faccia e del collo.

Dal marciapiede attorno a lui, crivellato dai full metal jacket si staccarono dei frammenti di cemento che gli graffiarono le mani, la faccia e gli occhi. Rotolò via più veloce che poté, cercando di rimpicciolire il suo corpo mentre una decina di uomini armati avanzava verso di lui in uno sferragliare di fucili.

La polizia posizionata alle transenne di Great Russel Street aveva risposto con il fuoco delle armi automatiche. Un fuoco incrociato che sfrecciava al di sopra della sagoma prona di Khalid. Non c’era modo di ripararsi. Il relitto della Daimler era troppo caldo per avvicinarsi, ma almeno il fumo denso che si sprigionava dalla massa accartocciata offriva un velo di protezione in cui nascondersi. Un proiettile gli strisciò la schiena, un solco infuocato dalla spalla al fianco, mentre arrancava nel fumo e si allontanava dalla limousine rotolando. Tuffandosi riuscì a rotolare di nuovo sulla strada, con il cordolo di venti centimetri del marciapiede che sembrava dargli la protezione di un carro armato rispetto alla posizione totalmente esposta di pochi istanti prima.

Il vestito gli si squagliava addosso per il calore dell’auto in fiamme e sulla sua mano sinistra, la più vicina all’auto, cominciarono a formarsi delle vesciche. Khalid non osava muoversi.

Due dei terroristi armati caddero sotto il fuoco spietato del fucile FN FAL di un poliziotto, e altri due rimasero feriti. I terroristi erano a una trentina di metri da Khalid, ma il fumo e le fiamme lo nascondevano quanto bastava a far sì che i loro colpi lo mancassero di diversi metri. I curiosi che si erano accalcati per vedere il galà dell’apertura della mostra erano fuggiti in preda al panico, inciampando e cadendo gli uni sugli altri, noncuranti per quegli sfortunati che venivano calpestati dalla pazza folla in fuga.

Quando iniziò il putiferio, i giornalisti rimasero tutti al loro posto. Da quando Herb Morrison aveva vissuto e raccontato in prima persona il disastro dell’Hinderburg cambiando così il giornalismo in tutto il mondo, momenti come quello erano diventati il sogno di ogni reporter. Stavano tutti cercando di sfruttare al massimo la situazione. Con la stessa calma degli spettatori di un torneo di tennis, i giornalisti si voltarono tutti verso un membro del Parlamento che stava scendendo dalla sua auto e per avvicinarsi alla carneficina, a soli cento metri. Come un sol uomo, cambiarono la loro espressione bovina e annoiata in un guizzo di sanguinaria delizia sentendo i proiettili sfrecciare nell’aria. Ci fu persino un giornalista che rise quando la Daimler esplose.

In quel turbinio di proiettili Khalid non vide nulla di tutto questo e si aspettava che da un momento all’altro non avrebbe mai più sentito niente. Teneva gli occhi così socchiusi e stretti che vedeva solo dei bagliori confusi, ma riuscì a rimanere completamente immobile, schiacciato sull’asfalto di Great Russel Street. Nessuna delle sue esperienze avrebbe potuto prepararlo a un simile terrore, e proprio mentre la morte sembrava dargli la caccia, era sconcertato dalla sua capacità di rimanere calmo.

E d’un tratto tutto finì, così com’era cominciato. Il fuoco implacabile della polizia stese gli ultimi due terroristi a una decina di metri da Khalid, uno con un proiettile che lo aveva centrato nell’occhio sinistro, l’altro quasi squarciato a metà da una raffica di colpi sparati da un giovane agente speciale. L’intera scena era stata immortalata da innumerevoli macchine fotografiche automatiche.

La pioggia aveva formato un piccolo rigagnolo nella canalina di scolo e l’acqua scorreva portandosi via qualche foglia, qualche frammento di cemento e il tappo di una bottiglia, lavando via i sassolini e la terra dalla faccia di Khalid. Il freddo lo fece gemere, non di paura né di dolore, che sarebbero esplosi più tardi, ma per il sublime sollievo di scoprirsi ancora vivo.

Le sirene della polizia ruppero il silenzio che era sceso dopo l’attentato. Stavano arrivando le ambulanze e c’erano sempre più soldati, sempre più giornalisti, sempre più gente. Khalid rimase per terra, lasciando che la pioggia gli battesse sulla schiena e gli strisciasse sul collo prima di colare sulla strada. Quando sentì qualcuno che esclamava: “O Gesù!” cercò finalmente di alzarsi.

Riuscì a sollevarsi di qualche decina di centimetri, poi sentì un dolore lancinante attraversargli tutto il corpo. Le ferite che aveva riportato erano molto più gravi di quel che glie era sembrato.

“È vivo!” gridò la voce. “Portate qui un cazzo di dottore, muovetevi.”

Una mano rassicurante gli toccò la spalla, e Khalid gemette.

“Presto starai bene, amico” disse la voce cercando di essere rassicurante per quanto possibile, considerando la quantità di sangue fuoriuscito dal corpo di Khalid. “Hai più buchi tu di un campo da golf, ma presto starai bene.”

“Ha idea di chi sia?” chiese un infermiere al soldato, mentre prestava i primi soccorsi a Khalid.

“Sì. È il figlio di puttana più fortunato che abbia mai incontrato.”

***

Hasaan Bin-Rufti diede uno schiaffo in piena faccia all’uomo che aveva davanti, più forte che poté, con i rotoli di lardo che gli ostacolavano il movimento delle braccia e la massa informe del suo corpo che assorbiva la potenza del suo gesto. Ne seguì un manrovescio ben più efficace, specialmente quando l’anello con il diamante da quattro carati che portava al mignolo strappò una strisciolina di carne dalla guancia dell’uomo. Alla vista del sangue Rufti, deliziato, lo schiaffeggiò ancora, ma stavolta fu la carne del suo dito a picchiare violentemente sul bordo affilato della pietra e a cominciare a sanguinare. Imprecando, si mise a succhiarsi il dito come se temesse di perdere, insieme alle gocce di sangue, la sua energia vitale.

“Sono perennemente circondato da idioti” strillò isterico ai due uomini che stavano dietro a quello rannicchiato davanti a lui. Tolse il dito dalla bocca per il tempo necessario a ingoiare una tartina di caviale. Rimise il dito in bocca biascicando e continuò a parlare senza toglierlo.

“Non mi sembra così difficile colpire un bersaglio immobile con un missile. Ti era stato detto di colpirli appena si fermavano, ma tu hai pensato bene di aspettare che Khuddari avesse il tempo di fuggire.”

“Vi prego, l’autista era come un fratello per me, lo sapete” frignò il combattente per la libertà curdo, prostrato.

“Ho dato un milione di dollari alla tua organizzazione in cambio della morte di un solo uomo, e tu mi vieni a dire che non sei disposto a sacrificare un solo uomo per la vostra causa? L’autista doveva morire, lo sapevate entrambi. Doveva sparare a Khuddari e poi morire nell’esplosione del missile. Il suo martirio era il punto chiave di tutta l’operazione. Come puoi pensare che Allah e il suo Profeta possano sostenere la vostra causa se nessuno sa chi siete? È per questo che vi servono dei martiri.” Per la rabbia e la frustrazione le labbra gommose di Rufti si muovevano in modo osceno. “Lo sai che in inglese basta cambiare una lettera al nome del vostro popolo per trasformarlo in un termine, “curd”, che indica una specie di ricotta? Con un nome del genere siete semplicemente ridicoli. Il paese della ricotta. La patria delle mucche da latte e dei formaggiai.”

Rufti guardò l’orologio, sui cui aveva fatto montare un cinturino speciale per la circonferenza spropositata del suo polso. “Tra dieci minuti la BBC riceverà una lettera della vostra organizzazione, Kurdistan Unito, con la rivendicazione dell’attentato, in cui si dice che le aggressioni continueranno fino a che le vostre richieste di indipendenza nazionale non saranno esaudite. Dopo questo fiasco totale il mondo se ne farà un baffo e dirà: ‘Continuate pure, sette curdi morti in cambio di qualche scheggia di cemento. Nel giro di poco avrete esaurito i combattenti, continuate pure.’

“I nostri accordi” continuò Rufti con tono declamatorio e con i rotoli di grasso sotto il mento che si muovevano come la gelatina, “erano soldi in cambio dell’uccisione di Khalid Khuddari. Io so che tu sei troppo scemo per capire quanto la sua morte sia importante per me, ma non strisciare ai miei piedi frignando e spiegandomi che ci hai ripensato all’ultimo minuto.”

In quei preziosi momenti Rufti si sentiva perfettamente aderente all’immagine che aveva di sé: un uomo pieno di potere, potere autentico. Bastava che parlasse e i suoi due agenti avrebbero ucciso il curdo all’istante e l’idea non gli dispiaceva, ma il piacere di vedere il combattente per la libertà ai suoi piedi era troppo inebriante per farlo finire così in fretta. Avrebbe prolungato, assaporato, goduto di quel potere che sentiva di meritare. Il potere di dire cosa è giusto e cosa è sbagliato, il potere della vita e della morte. Caligola doveva aver provato le stesse sensazioni.

Dall’enorme piatto di finissima porcellana che usava per gli antipasti, Rufti scelse una galletta ricoperta di paté di fegato facendola sparire immediatamente in bocca per poi ripetere il gesto e trangugiarne un’altra. Pensò di trattenere la terza tra le dita mentre si rivolgeva al curdo ancora inginocchiato davanti a lui, ma la tentazione ebbe la meglio e fagocitò anche quella. Vuotò d’un fiato un flute di spumante analcolico per poi riempirlo con tale avidità che ne rovesciò parecchio sul divanetto accanto alla poltrona che sosteneva la sua mole spropositata.

Nelle pause tra gli incontri con gli iraniani e gli iracheni, negli ultimi giorni Rufti aveva dedicato ogni momento a prepararsi il discorso di apertura delle cerimonie del meeting dell’OPEC. Aveva sapientemente mescolato le giuste quantità di costernazione e di ammirazione per Khalid Khuddari, riprovazione per l’attacco insensato che gli era costato la vita, e affranta accettazione del gravoso incarico di rappresentante ufficiale degli Emirati Arabi Uniti durante gli incontri. Mentre il piano dell’uccisione di Khuddari era stato studiato per settimane, o addirittura mesi, aveva lasciato la preparazione del discorso agli ultimi giorni per dare alle sue parole un tocco di improvvisazione in modo da aumentarne la credibilità.

Nel momento in cui pensò a quando avrebbe dovuto dire agli iraniani e agli iracheni che Khuddari era ancora vivo sentì un crampo all’intestino. Quell’uccisione avrebbe dovuto dare il via a una tale sequenza di eventi che Rufti non riusciva neanche a ricordarseli tutti, ma visto come erano andate le cose nessuno di quei dettagli doveva trapelare. Gli iracheni avrebbe chiesto di essere ripagati. Erano loro che avevano messo il grosso dei soldi per pagare l’addestramento dei curdi, molti dei quali erano finiti nelle tasche di Rufti, e avrebbero preteso una spiegazione.

Cosa aveva detto il rappresentante degli iracheni? All’annuncio della morte di Khuddari ventimila uomini e ottomila carri armati sarebbero stati trasferiti sul confine meridionale. Rufti deglutì, col bicchiere ancora attaccato alle labbra, mentre l’espressione dei suoi occhi suini si indurivano guardando il curdo ai suoi piedi. Adesso uccido questo coglione con le mie mani, pensò.

In lontananza, in una delle dieci stanze della suite, un telefono squillò. Uno degli assistenti bussò alla porta e porse il ricevitore a Rufti su un vassoio d’argento, come se fosse un cioccolatino.

“Cosa c’è?” sbuffò Rufti.

“È Tariq, signor Ministro. È all’ospedale dove hanno ricoverato Khuddari.” Tariq era uno degli uomini di Rufti.

“Allah sia lodato” disse Rufti afferrando il telefono e lanciando un’occhiata molto significativa agli altri uomini, “finalmente qualcuno con un po’ di iniziativa.”

Nella cornetta la sua voce risuonò tagliente e autoritaria, e non petulante come poco prima. “Tarik, dammi delle ottime notizie e dimmi che quel bastardo è morto per le ferite.”

“No, signor Ministro. Khuddari è ancora vivo, ma le sue condizioni sono definite critiche. Quando sono arrivato un inserviente stava ancora lavando il sangue dal pavimento del pronto soccorso.”

Rufti sapeva che Tariq stava usando un cellulare non sicuro e gli intimò di non fare nomi, ma poi continuò come se quei timori non gli appartenessero. “Stammi a sentire. Resta all’ospedale ma non avvicinarti a Khuddari. La tua presenza non deve essere collegata a me. Com’è il livello di sicurezza?”

“Per adesso, basso. Non credo che sappiano chi è Khuddari.”

Tarik cercò di mostrarsi deciso e disse: “Posso entrare nella sua stanza senza problemi. Una pallottola in più non farà differenza.”

“No. Resta lì. Ho bisogno di tempo per pensare. Potrei spedire questo curdo smidollato a finire Khuddari una volta per tutte.” Rufti chiuse di scatto il telefono e si rivolse al curdo ancora a terra. “Per adesso chiudetelo da qualche parte. Con lui non ho ancora finito.”

Rufti avrebbe voluto che Abu Alam fosse lì. Avrebbe buttato all’aria la stanza di Khuddari facendo fuoco a tutto spiano e sarebbe sparito prima che le autorità si accorgessero di cosa era successo. Rufti non nutriva la stessa fiducia per il suo secondo. Tariq era in gamba, ma molto prudente, totalmente privo della febbre psicotica di Alam. Lui però doveva rimanere in Alaska a tenere d’occhio Kerikov e per rapire Aggie Johnston, per garantirsi che suo padre non si sarebbe tirato indietro e avrebbe comunque fatto la sua parte.

Khalid Khuddari era straziato e agonizzante, con le ferite che bruciavano così profondamente che anche nel tempo avrebbero continuato a causargli dolore offuscando per sempre il suo sguardo. Il dolore iniziava all’altezza delle natiche e saliva lungo la schiena, irradiandosi dalla spina dorsale in una miriade di nervi ramificati e aggrovigliati come le radici di un albero. Gli avvolgeva le spalle come un manto, tenendolo schiacciato contro il letto. Ma era soprattutto nella testa. Un dolore spaventoso, come se il cervello si fosse gonfiato e premesse violentemente contro la scatola cranica. E la faccia gli bruciava come se fosse stato punto da tutte le api del deserto.

Khalid emise un lamento e una voce disse: “Oh, ecco.”

Khalid si sforzò di aprire un occhio, ma gli sembrava che il bulbo oculare gli sarebbe potuto rotolare fuori dalle palpebre. La voce era quella di un indiano sulla cinquantina, dai capelli brizzolati e con i baffi quasi bianchi. La pelle aveva il colore del tè quando è lasciato in infusione a lungo, e lo sguardo era assorto dietro un paio di occhiali con la montatura di metallo. Aveva un camice verde da ospedale e uno stetoscopio che gli penzolava attorno al collo come un serpente morto.

“Sto pensando” disse il medico indiano con quella speciale miscela di arroganza inglese e di reverenza da servitore, “che di sicuro lei in questo momento sta soffrendo atrocemente, ma non so se desidera che le somministriamo della morfina per alleviare il dolore. Immagino che lei sia musulmano e che il suo credo le impedisca di ricorrere a questi farmaci, è così?”

“Mi faccia quell’iniezione” riuscì a farfugliare Khalid attraverso le labbra indolenzite.

“Certo, le darò il farmaco.” E si diede subito da fare per iniettare la morfina nella sacca di plasma che penzolava sopra il letto.

Oddio, pensò Khalid, sono nelle mani di una caricatura.

“Lei è certamente un uomo molto fortunato. Ma prima di tutto, io sono il dottor Ragaswami. Sono il medico che l’ha accolta al pronto soccorso. Quando è arrivato da me lei sanguinava copiosamente, ma le assicuro che non le è stato iniettato niente. Lei è stato colpito di striscio da tre proiettili, in alcuni punti è stato necessario applicarle dei punti di sutura, ma nessuno di loro ha causato ferite profonde. Le ho anche estratto circa quaranta grammi di cemento, suppongo fossero schegge sollevate dagli spari che l’hanno mancata.” Ragaswami guardò il monitor del battito cardiaco accanto al letto, soddisfatto nel vedere che il paziente era in fase di recupero.

“Quanto tempo è passato?” chiese faticosamente Khalid.

“Sono le dieci di sera” disse Ragaswami con la sua voce squillante studiando il quadrante di un orologio digitale. “Lei si trova qui da più di cinque ore, ed è abbastanza incredibile che lei sia già sveglio. Lei è certamente un uomo molto forte, un soggetto più debole non si sarebbe svegliato prima di domani mattina.”

Ragaswami stava per continuare, ma Khalid lo interruppe. “Devo fare una telefonata.”

“Certo, stavo per dirglielo. Non ci è stato possibile identificarla quindi non siamo stati in grado di contattare la sua famiglia.”

La morfina stava cominciando a fare effetto e Khalid sentì affievolirsi le fiamme che gli lambivano la schiena.

“Non c’è nessuno della mia famiglia qui” biascicò con la bocca impastata, ma ho un amico. Si chiama Trevor-James Price, e in questo momento si trova a cena a Les Ambassadeurs.”

Ci vollero alcuni minuti prima che l’inserviente incaricato da Ragaswami riuscisse a rintracciare James-Price, e nel frattempo il medico esaminò le ferite di cui era disseminata la schiena di Khalid, esprimendo di tanto in tanto la sua soddisfazione per la precisione dei punti di sutura che aveva lui stesso applicato.

“Sono spiacente, ma al ristorante non risultava nessuna prenotazione a nome James-Price,” disse un’infermiera mingherlina, affacciandosi sulla porta della stanza di Khalid.

“Aspetti, il tavolo non era a nome suo.” Khalid ripensò al suo incontro con Trevor e si ricordò della donna che era con lui. Non sembrava che si conoscessero da molto tempo, e la cena era stata un’idea di lei. Era impossibile che uno come Trevor riuscisse ad avere una prenotazione all’ultimo minuto per un tavolo a Les Ambassadeurs.

“Il tavolo è a nome Millicent.” Poi tacque per quasi un minuto, con la mente offuscata dall’effetto della morfina, che cancellava non solo il dolore, ma anche la sua consapevolezza. Il mondo attorno a lui stava diventando grigio. “Millicent Gray, è lei che ha fatto la prenotazione. Dite a Trevor che ho bisogno di lui.”

Cinque minuti dopo Khalid era sull’orlo dello stordimento, un vuoto che lo risucchiava e nel quale desiderava disperatamente tuffarsi e al quale tuttavia resisteva come il Saladino contro i Crociati. Finalmente l’infermiera riapparve con un telefono cordless, tenendolo in modo che Khalid potesse parlare senza muoversi e senza tirare il reticolo di punti che aveva su tutta la schiena.

“Senti, vecchio, è davvero troppo” esordì Trevor incazzato. “Eravamo d’accordo per vederci più tardi. Non mi capita tutti i giorni di essere invitato a cena da una gnocca come Millie.”

“Taci Trev” disse Khalid in un lamento. “Sono nei guai.”

“Cosa c’è adesso? Voi arabi siete sempre nei guai. Tutta colpa del Corano e di quella stronzata della jihad. È violenta da fare schifo, ma ve la raccontano così fin da quando siete bambini, come se fosse una favoletta.”

“Trevor, vuoi stare zitto per favore?” Grazie ai farmaci riusciva a parlare un po’ meglio, ma perdeva il filo di quello che stava dicendo. “Sono in ospedale con un medico indiano, direi. Ho bisogno che tu venga qui, e ho bisogno anche della tua ragazza.”

“Cosa stai dicendo?” La voce scanzonata di Trevor assunse un tono preoccupato.

“Mi hanno sparato e mi hanno preso in pieno, stronzo. Ho bisogno che mi porti via di qui. La faccenda non è ancora conclusa, se mai lo sarà.”

“Non so di cosa tu stia parlando, Khalid. Fammi parlare con il medico.”

“No” disse Khalid. Ragaswami era uscito dalla stanza con la promessa che sarebbe tornato dopo qualche minuto. “Non stasera, non ce la posso fare. Domani mattina devi venire qui e portare con te Millicent Gray. È alta a sufficienza.”

“Cosa stai dicendo, Khalid? Mi spaventi, Cristo. Stai bene?”

“Mi hanno dato dei sedativi, non posso parlare molto.”

Le parole gli uscivano a fatica e sprofondò nell’oblio. “Domani mattina devi venire qui con Miss Gray. Falle indossare un chador, deve essere completamente velata. Deve essere coperta dalla testa ai piedi come una devota musulmana. Di’ loro che è mia moglie. Capito?”

Trevor percepì la disperazione nella voce di Khalid. “Fidati, amico mio, saremo lì non appena ci faranno entrare. Per te, indosserò quel dannato velo.”

Khalid era scivolato in uno stato di narcosi indotto in parte dai farmaci e in parte dal dolore. Se fosse stato sveglio avrebbe sentito le ultime parole del suo amico e gli avrebbe salvato la vita, ma ormai era incosciente e lasciò cadere il telefono sul pavimento facendo uscire la batteria, cosicché la linea fu interrotta come se Khalid avesse chiuso la chiamata.

Tornato a Les Ambassadeurs, Trevor restituì il telefono al leggiadro cameriere e si rivolse alla sua libidinosissima amica. “Ti ricordi quel mio amico che abbiamo incontrato al Savoy? Beh, si direbbe che abbia bisogno del nostro aiuto.”

“Non dirmi che sa che mio marito è un membro del Parlamento.”

“Mia cara” disse Trevor prendendo la mano affusolata tra le sue e spostando un piatto di squisito manzo scozzese per afferrare quello che veramente desiderava. “Niente di così triviale. Domani mattina sarai la regina di un harem, e io sarò il tuo harem.”

“Pensavo che le donne degli harem fossero tutte vergini.”

“Sì, è vero, ma temo che dopo questa serata con te la mia verginità sarà perduta.”